L'ortopedia della spalla è una di quelle branche della medicina che, più di altre, ti fa capire quanto il corpo umano sia un capolavoro di ingegneria naturale. La spalla non è solo un'articolazione: è il punto d'incontro tra libertà di movimento e stabilità, tra delicatezza e forza.
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È l'unica articolazione del corpo che può ruotare di 360 gradi, ma proprio per questo è anche una delle più fragili. Quando qualcosa va storto – una lussazione, una rottura della cuffia dei rotatori, un'artrosi avanzata – la vita cambia. Il dolore diventa costante, il sonno un miraggio, persino alzare un braccio per prendere un bicchiere dall'armadio può sembrare una missione impossibile.
Io sono il dottor Antonello Amelina, ortopedico specializzato in chirurgia della spalla, e da vent'anni vedo pazienti entrare nel mio studio pensando che la loro storia finisca lì: "Dottore, non posso più fare niente". Ma la verità è che oggi, più che mai, l'ortopedia della spalla non è solo riparare ciò che si è rotto. È prevenire, rigenerare, personalizzare. È ridare alle persone non solo il movimento, ma la vita che avevano prima – o, a volte, una versione ancora migliore.
Partiamo dalle basi. La spalla non è una palla in una coppa, come molti pensano. È un complesso sistema fatto di quattro articolazioni principali: la gleno-omerale (quella che tutti immaginano), l’acromion-claveare, la sterno-claveare e la scapolo-toracica. Poi ci sono i muscoli della cuffia dei rotatori – sovraspinato, sottospinato, piccolo rotondo, sottoscapolare – che lavorano come un’orchestra per stabilizzare l’omero mentre il deltoide e gli altri muscoli lo sollevano. Aggiungici i legamenti, la capsula, il labbro glenoideo, i tendini, i nervi… e capisci perché, quando qualcosa si rompe, non è mai una cosa semplice.
Il problema più comune? La cuffia dei rotatori. È la causa del 70% dei dolori cronici alla spalla dopo i 50 anni. Il sovraspinato è il tendine che si lesiona più spesso: si usura, si infiamma, si strappa. A volte è un trauma – una caduta, un movimento brusco – ma il più delle volte è l’usura lenta, quotidiana. Sollevare borse della spesa, dipingere il soffitto, dormire sempre sullo stesso lato: piccoli gesti che, nel tempo, consumano il tendine come una corda logora.
Ma non è solo questione di età. Ci sono i giovani, gli sportivi – tennisti, pallavolisti, nuotatori – che arrivano con instabilità di spalla. L’articolazione è troppo mobile, la capsula si allenta, l’omero "balla" nella glena. Una lussazione può capitare una volta, poi due, poi diventa cronica. E ogni volta che succede, il labbro glenoideo si stacca un po’ di più, il danno si accumula, il rischio di artrosi precoce aumenta.
E poi c’è l’artrosi, il nemico silenzioso. Arriva piano, con rigidità mattutina, scricchiolii, dolore che peggiora di notte. La cartilagine si consuma, l’osso si deforma, la testa omerale non scivola più bene nella glena. A quel punto, molti pensano: "Mi tocca la protesi". Ma non è sempre così. E non è mai la prima scelta.
Quando un paziente entra nel mio studio, la prima cosa che gli dico è: "Raccontami la tua spalla, ma raccontami anche la tua vita". Perché la spalla non fa male da sola. Fa male quando vuoi abbracciare tuo nipote, quando non riesci a guidare, quando ti svegli alle tre di notte con fitte che ti attraversano il braccio. Il dolore è tecnico, sì, ma è anche emotivo, funzionale, quotidiano.
Per questo non parto mai dall’operazione. Parto dalla diagnosi precisa. Una buona risonanza magnetica, un’ecografia dinamica, una valutazione del movimento in 3D se serve. Voglio vedere com’è la lesione, quanto è retratta, se c’è atrofia muscolare, se il tendine è ancora riparabile. Ma voglio anche vedere come si muove il paziente. Perché una cuffia rotta in un muratore è diversa da una cuffia rotta in un impiegato. Il primo ha bisogno di forza, il secondo di precisione. La terapia deve essere su misura.
Se la lesione è piccola, fresca, parziale, spesso basta la fisioterapia mirata. Rafforziamo i muscoli residui, insegnamo al corpo a compensare, riduciamo l’infiammazione. Uso spesso il PRP – plasma ricco di piastrine – prelevato dal sangue del paziente, concentrato e iniettato nel tendine. Non è magia, ma è biologia: le piastrine rilasciano fattori di crescita che stimolano la guarigione. Funziona soprattutto nelle tendinopatie, meno nelle rotture complete. Ma quando funziona, evita l’intervento.
Se invece la rottura è grande, cronica, con retrazione, allora si parla di chirurgia. Ma anche qui, niente fretta. Prima provo la rigenerazione biologica. Uso scaffold in collagene, matrice extracellulare, a volte cellule mesenchimali derivate dal grasso addominale del paziente. L’idea è semplice: non sostituire il tendine, ma aiutarlo a ricrescere. È un approccio che sto usando da anni, con risultati che migliorano di stagione in stagione.
Quando opero, il 95% delle volte lo faccio in artroscopia. Tre buchi da 5 millimetri, una telecamera, strumenti sottili. Niente tagli grandi, niente deltoide aperto, niente punti da togliere. Il paziente entra la mattina, esce il pomeriggio. Il giorno dopo è a casa, con il braccio al collo, sì, ma già in movimento.
La riparazione della cuffia dei rotatori è l’intervento che faccio più spesso. Pulisco l’infiammazione, preparo l’osso, poi uso ancore in titanio o bioassorbibili per riattaccare il tendine. A volte è una singola fila, a volte doppia fila, a volte con rinforzo biologico. Dipende dalla qualità del tendine, dall’età, dal tipo di lesione. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: una riparazione solida che duri nel tempo.
Per le instabilità, invece, uso la tecnica di Bankart artroscopica o, nei casi più complessi, la Latarjet. Nel primo caso, riattacco il labbro glenoideo con ancore. Nel secondo, trasferisco un pezzo di coracoide sulla glena per creare un blocco osseo. È un intervento più invasivo, ma salva la spalla di chi ha avuto 10, 15 lussazioni. E lo faccio sempre con il paziente sveglio, in blocco interscalenico: niente anestesia generale, meno rischi, recupero più veloce.
Arriviamo al punto che molti temono: la protesi. Ma oggi non è più come una volta. Non è un pezzo di metallo infilato e basta. È un sistema personalizzato.
Uso la protesi anatomica quando la cuffia è ancora buona. Riproduce l’anatomia originale, con una testa omerale e una glena in polietilene. Ma se la cuffia è distrutta, passo alla protesi inversa. Qui la logica si ribalta: la palla va sulla glena, la coppa sull’omero. Il deltoide diventa il motore principale. È un intervento rivoluzionario, inventato in Francia negli anni ’80, ma perfezionato negli ultimi 15 anni. Oggi dà risultati straordinari anche in pazienti over 75.
E non è finita. Sto usando sempre di più le protesi 3D personalizzate. Faccio una TAC, creo un modello virtuale della spalla del paziente, poi stampo in 3D le guide chirurgiche. Durante l’operazione, posiziono la protesi con precisione millimetrica. Niente più "occhio del chirurgo". È la tecnologia che guida la mano, ma è sempre la mia esperienza a decidere dove e come.
Ma il vero cambiamento non è in sala operatoria. È prima. È nella prevenzione.
Da qualche anno uso i sensori indossabili. Piccoli dispositivi che il paziente porta per una settimana. Registrano come si muove la spalla durante il giorno: quanti gradi di elevazione, quante rotazioni, quanti sovraccarichi. Poi un algoritmo analizza i dati e mi dice: "Questo paziente ha un rischio del 65% di rottura della cuffia entro 3 anni". A quel punto, interveniamo prima: fisioterapia preventiva, correzione posturale, rinforzo mirato. È come cambiare l’olio alla macchina prima che il motore grippi.
E per gli sportivi, uso l’analisi del movimento in 3D. Li metto in laboratorio, gli attacco dei marker, gli faccio fare il gesto sportivo. Vedo dove la spalla è instabile, dove il carico è eccessivo. Poi correggiamo la tecnica. Un tennista che serve male può salvare la sua cuffia con due settimane di allenamento mirato. È ortopedia, ma è anche coaching.
Dopo l’intervento, il paziente non è "finito". È solo all’inizio. Il recupero è il 50% del successo.
Uso un protocollo che chiamo "fast-track shoulder". Il giorno dopo l’operazione, il paziente inizia a muovere il braccio. Niente immobilizzazione lunga. Poi, dopo 3 settimane, parte la fisioterapia attiva. Ma non è la solita: uso realtà virtuale. Il paziente indossa un visore, gioca a prendere oggetti virtuali, muove la spalla senza accorgersi che sta facendo riabilitazione. È divertente, è motivante, è efficace.
E poi ci sono gli esoscheletri leggeri. Dispositivi che aiutano il movimento senza sostituirlo. Il muscolo lavora, ma con meno fatica. È come avere un personal trainer invisibile.
Tra dieci anni, l’ortopedia della spalla sarà diversa. Useremo tendini rigenerati in laboratorio, cresciuti dalle cellule del paziente. Impianteremo protesi intelligenti con sensori che mandano dati al mio smartphone: "Dottore, il carico è troppo alto, riduci l’attività". Useremo robot chirurgici non solo per guidare, ma per operare in autonomia su parti standardizzate. E l’intelligenza artificiale mi dirà, prima ancora di vedere il paziente: "Questo ha il 92% di probabilità di guarire con PRP, non serve operare".
Ma una cosa non cambierà mai: il rapporto umano. Perché la spalla non è solo osso e tendine. È il modo in cui una madre solleva il figlio, un nonno gioca a carte, un artigiano torna a lavorare. È la libertà di muoversi senza dolore.
Io, dottor Antonello Amelina, non opero spalle. Curo persone. E ogni volta che un paziente esce dal mio studio e, dopo mesi, mi manda una foto mentre gioca a tennis, nuota, o semplicemente alza il braccio senza dolore, so che ne è valsa la pena.
Redazione
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Giornalista e scrittore appassionato di politica, tecnologia e società. Racconta storie con chiarezza e attenzione ai dettagli.
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Sindaco Gualtieri Roberto